Che forma avrà la crisi del capitalismo?

Happy ending?

Caro lettore avrai sicuramente notato fra i tuoi colleghi ed amici il Credo. Da dove nasce? Forse dal fatto che le masse sono abituate a vedere trame televisive tutte accomunate da un finale “bello”, un happy ending? Ebbene, il buon cittadino di questa società ipocrita deve essere educato a questo credo fideistico. Così si sviluppa poco a poco l’idea inconscia che tutto andrà per il meglio.

Dovremmo domandare alle persone incantate se quel che vien loro mostrato corrisponde alla realtà!

Al contrario, infatti, potremmo dimostrare che non esiste un happy ending. Potremmo dire, a sostegno della nostra tesi, che abbiamo anche molte prove. A dire il vero sono talmente tante che non occorre nemmeno che siano raccolte. A titolo di esempio ne mostriamo una. Si tratta di uno scatto di Hiroshima dopo il bombardamento nucleare. Domandate pure agli abitanti di Hiroshima il loro finale smielato.

Eppure il Credo è ben radicato nell’ideologia gradualista e lineare borghese.

In economia politica questo Credo si conclude con l’idea della “mano invisibile”, oppure con un “interventismo-statalista” che titanosamente riuscirebbe sempre e comunque a rimettere “tutto apposto”.

Questa idea è talmente penetrante che spesso si sente persino negli ambienti rivoluzionari: «tanto peggio, tanto meglio… così almeno i proletari capiranno, mica son tutti coglioni!»

Ecco, meglio dirlo una volta per tutte! Noi rigettiamo questa logica assurda che sembra attendere il momento X in cui tutto si risolve da sé. Non ci appartiene, e sappiamo bene quali sono i nostri compiti immediati.

Questo carattere dell’ideologia dominante si può metaforicamente rappresentare con quella che potremmo chiamare l’ideologia del fiorista: «Che farà il fiore? Il fiore fiorirà fiorendo». Il lettore potrebbe pensare –e grazie! Ebbene, il punto è capire cosa sarà del fiore? Il fiore lascerà spazio al frutto?  O appassirà senza lasciare traccia?

Ecco, staremo a vedere se il compito di chi legge è ancora raccontare ai propri colleghi ed amici come fiorisce il capitalismo, lasciandosi trascinare dalla corrente generale, come chi fa il morto a galla, oppure cambiare rotta e decidere dove andare, anche se questo implica andare contro corrente, quindi esprimere quindi un giudizio e chiarire sempre ciò che va a favore o va contro la lotta per mettere fine a questo sistema infame.

Cosa porterà il fiore del capitalismo? Un altro disastro naturale e umanitario senza uguali? Oppure una rivoluzione mondiale che seppellisca gli istituti su cui questo sistema si regge, per lasciare spazio ad una nuova umanità?

Non diamo una risposta a questa domanda. La nostra teoria non si fonda su un presupposto teleologico. La domanda è talmente mal posta che qualsiasi ne sia la risposta, sarebbe in errore.

E’ più propriamente catastrofista: socialismo o barbarie! Il lettore non deve spaventarsi di questo. La parola catastrofe ha una accezione comune, a nostro avviso, eccessivamente cattiva.

Catastrofico è, per esempio, il passaggio di fase dell’acqua in ghiaccio. Ecco, allo stesso modo noi vediamo il passaggio dal capitalismo al socialismo. Nulla di graduale, per cui non matura la società futura poco a poco fin da ora, come non matura il ghiaccio poco a poco che l’acqua passa dai 10 ai 9 gradi centigradi.  Certo, dirà il lettore, almeno maturano le condizioni!

Siam qui per questo. Non ci interessa contemplare il fiore, assieme al fiorista, sappiamo già che fiorendo si prepara a morire. Ci interessa quale catastrofe ne sancirà la morte. Siamo qui per far si che al fiore segua il frutto, ed evitare che  perisca senza lasciar nulla! Siamo qui per garantire che si passi al socialismo, e non che la morte del capitalismo implichi la fine della civiltà.

La distruzione di capitale oltre il revisionismo

Uno degli aspetti fisiologici del capitalismo è la distruzione di capitale. E’ bene intendersi sull’importanza di questo aspetto. Marx ci dice, in Lineamenti della critica dell’economia politica (1858), che: «al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per il capitale, e dunque il rapporto del capitale diventa un ostacolo per il capitale, e dunque il rapporto del capitale diventa un ostacolo per [lo] sviluppo delle forze produttive del lavoro».

Questo di primo impatto può sembrare contraddittorio, o privo di senso. Tuttavia più di tanto non deve colpirci, essendo questo, il profondo risultato della contraddizione capitalistica. Tanto più sembra assurdo, quanto è superato il modo di produzione capitalistico stesso: del resto altrettanto assurdi potrebbero sembrare ai nostri occhi di oggi le pratiche del sacrificio e del cannibalismo nelle società mesoamericane!

Il rito dell’accumulazione prevede il sacrificio, cosa che deve compiere il capitale per superare le sue crisi cicliche, e conservarsi. Del resto, questo sacrificio è, in piccolo, ciò che in grande scala, costituisce l’atto sacrificale che si renderebbe necessario per superare del tutto questo modo di produzione.

Quanto detto è di estrema attualità. Infatti la morale borghese dell’austerity prevede che un po’ “tutti” paghino il prezzo della crisi capitalistica, un po’ tutti facciano dei sacrifici perché vinca nella corsa al profitto l’imperialismo nazionale. Invece, l’antagonista, immediatista e coglione, oppone con far radicale l’idea che siano solo le banche a pagare, piuttosto che la casta. Il cattivo odore accomuna sia chi vorrebbe che siano “loro” a pagare, sia chi preferirebbe che paghino tutti “secondo le proprie possibilità”: entrambi parlano del sacrificio necessario perché il capitale riprenda il suo maledettissimo corso. Caro lettore non esitare ad attaccare nelle iniziative di classe, nelle assemblee pubbliche, nelle piazze, nei bar ed ovunque chi predica questi sacrifici!

Anche noi comunisti chiamiamo le masse al sacrificio –sia chiaro caro lettore! Ma non per conservare questo sistema infame, bensì per abbatterlo, e si sa, la lotta vera contro questo sistema richiede sacrifici, non solo oggi nella fase preparatoria, ma soprattutto quando ci sarà da fare la guerra aperta allo Stato borghese, che seminerà distruzione e miseria nel tentativo di terrorizzare le masse. La lotta per prendere in mano il potere provocherà la distruzione dell’apparato statale borghese, e di buona parte delle forze produttive, e ciò implicherà l’inviluppo di un periodo di sacrifici per ricostruire su basi diverse la produzione e le infrastrutture. Eppure, questo sarà l’unico dignitoso sacrificio, dal momento che è da portare   sull’altare della libertà.

Fatta questa dovuta precisazione sul significato politico che noi diamo alla parola sacrificio, possiamo -sicuri che il lettore abbia apprezzato- proseguire senza ulteriori variazioni sul tema.

Ancora Marx, nel Manifesto dei Comunisti (1848) ci dice che «le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate». Infatti, le esigenze di accumulazione di capitale hanno dato vita ad una potenza produttiva che va ben oltre gli angusti rapporti di proprietà capitalistici, una forza che il capitale stesso non può domare.

Fra tutte le forze che il capitalismo ha sviluppato e che non riesce sempre a controllare vi è una in particolare, l’unica che ne permette l’espansione ed allo stesso tempo l’unica che può mettere fine a questa società: il proletariato. Questa classe ormai occupa tutta la superficie terrestre e parla praticamente tutte le lingue del mondo. Essendo la classe produttrice per eccellenza nella società capitalista, vive di un lavoro che si articola su scala internazionale, ed è più che mai sociale, nel senso che ciascuna unità produttiva è legata in un modo o nell’altro a tantissime unità seminate su tutto il pianeta.

Tuttavia questa non è una condizione sufficiente per superare questo sistema. E’ indispensabile perché il proletariato alzi la testa, perche vi sia un forte senso di coscienza delle proprie condizioni ed una radicata prospettiva comunista nelle masse lavoratrici. Chiaramente come tutti i modi di produzione del passato, il capitalismo non si mette da parte spontaneamente, non si consegna al proprio giustiziere. L’ideologia e l’apparato politico e giuridico borghese lavorano proprio per imbrogliare ed intimidire la classe operaia, conservare la legittimità dello sfruttamento e della proprietà privata, di fronte ad un modo di produzione che non riesce -ora più che mai- a svilupparsi naturalmente, se non scimmiottando alcuni aspetti della società futura, e puntualmente cadendo in crisi dinanzi al proprio limite, che la sola concentrazione socialista potrà superare, e che la sola rivoluzione proletaria può preparare.

In un certo senso la contraddizione principe del capitalismo sta proprio nel fatto che ha in sé il seme della società futura. In questo articolo, si vuol analizzare uno degli aspetti più peculiari del capitalismo che, pur di non dare vita al comunismo, è sempre disposto ad abortire, provocando disastri incredibilmente grandi, e come di più grandi non ce ne sono mai stati.

Ma prima, vediamo che Marx distingue due forme di distruzione di capitale: la distruzione improduttiva, e quella produttiva.

Vediamo subito il secondo caso, che tanto affascina i rinnegati o finti marxisti, che sembrano più interessati ad esaltare le caratteristiche che esprimono la continuità apparente di questa società, il suo fiorire, che quelli che ne confermano il suo essere transitorio.

«Quando si parla di distruzione di capitale attraverso la crisi, bisogna fare una duplice distinzione. […] In secondo luogo, però, distruzione del capitale attraverso le crisi significa un deprezzamento di masse di valore che impedisce loro di rinnovare più tardi il loro processo di riproduzione come capitale sulla stessa scala. E’ la caduta rovinosa dei prezzi delle merci.  [Ma] con ciò non viene distrutto nessun valore d’uso. Ciò che perde l’uno guadagna l’altro» (Teorie sul plusvalore II, cap. 17).

Stiamo parlando della cosiddetta centralizzazione che comporta la concentrazione. Marx nel libro primo del Capitale ci ha tenuto tanto a distinguere due modi distinti: l’uno non implica necessariamente l’altro. Infatti, mentre per concentrazione si intende l’addensamento di masse maggiori di capitali per l’accumulazione allargata, per cui dire accumulazione è come dire concentrazione; la centralizzazione è il solo addensamento di capitali in poche mani (il che non implica che questi capitali saranno investiti per essere remunerativi come ci si aspetterebbe).

Dunque, la distruzione produttiva, avviene quando variazioni di prezzo nel mercato servono a ristrutturare settori produttivi, e quindi favorire investimenti e l’ammodernamento. Questo è l’unico modo in cui i settori produttivi, in particolare, ad alta composizione organica, riescono a vendere le proprie merci e quindi a realizzare il plusvalore. In questo modo avviene la cosiddetta ponderazione del saggio del profitto. Un effetto collaterale, però, è che i capitalisti che non si adeguano al moto di ristrutturazione capitalistica vengono espropriati (anche violentemente), per cui viene distrutto capitale attraverso crisi di ristrutturazione.

«Alle masse di valore operanti come capitali, viene impedito di rinnovarsi come capitale nella stessa mano. I vecchi capitalisti fanno bancarotta. Se il valore delle loro merci, della cui vendita essi riproducono il loro capitale, era uguale a 12’000, di cui per esempio 2’000 di profitto, ed esse scendono a 6’000, allora questo capitalista non può né adempiere alle obbligazioni contratte né, se anche non ne avesse, ricominciare con le 6000 gli affari sulla stessa scala, perché i prezzi delle merci salgono di nuovo ai loro prezzi di costo. Così è distrutto un capitale di 6’000, benché il compratore di queste merci, avendole acquistate alla metà del loro prezzo di costo, se gli affari riprendono vigore, possa andare avanti benissimo e possa anche avervi guadagnato. Una gran parte del capitale nominale della società, cioè del valore di scambio del capitale esistente, è distrutta una volta per tutte, benché proprio questa distruzione, poiché essa non tocca il valore d’uso, possa favorire molto la nuova riproduzione» (Teorie sul plusvalore II, cap. 17).

Questo, che in una certa misura rappresenta il moto progressivo del capitale, è una situazione particolare, in cui per l’appunto alla concentrazione segue la centralizzazione. In pratica una situazione di boom economico, di rivoluzione tecnologica, in cui il capitale bancario e quello industriale non sono in conflitto: i saggi dell’interesse sono relativamente bassi, e il saggio del profitto dei capitalisti più moderni è relativamente alto. Queste condizioni, che sembrano sempre impeccabilmente ideali ed eterne lì per lì.. poi puntualmente vengono, al contrario, ricordate come momenti felici per soli grandi speculatori, e giocolieri di borsa.

«ll sistema creditizio accelera pertanto lo sviluppo delle forze produttive e la creazione del mercato mondiale, che il modo di produzione capitalistico ha il compito storico di creare, sino ad un certo livello, quale base materiale del nuovo modo di produzione. Al tempo stesso, il sistema creditizio accelera le crisi, le violente eruzioni di questa contraddizione e quindi gli elementi della dissoluzione del vecchio modo di produzione» (Il Capitale, libro III, cap.5)

Il credito, in due parole ha un effetto amplificatore sulla dinamica del capitale. Accelera i tempi di accumulazione quando si accumula, accelera le crisi e le rende più impulsive e violente quando non si accumula. Del resto la crisi del credito è solo un aspetto di un fenomeno che avviene in sede produttiva, che è quello della crescente sterilizzazione dell’investimento (effetto della legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto), ci sta a testimoniare che non esistono rimedi compatibili con gli istituti giuridici borghesi, con la proprietà privata che possano compiutamente e definitivamente fronteggiare le esigenze di sviluppo libero delle forze produttive. Sarebbe un imperdonabile errore dimenticarsi che è la crisi produttiva a generare in superficie colpi d’ariete nel campo della finanza. Anche perché questo è quanto fanno gli economisti, come già ci testimonia il compagno Marx: «La superficialità dell’economia politica risulta fra l’altro nel fatto che essa fa dell’espansione e della contrazione del credito, che sono meri sintomi dei periodi alterni del ciclo industriale, la causa di quei periodi» (Il Capitale, libro I, cap.23)

Oggi sicuramente non viviamo in prevalenza la cosiddetta seconda forma distruttiva, quella della distruzione di capitale produttivo. Bensì la “prima” ossia quella in cui il sistema del credito e altri trucchi, non possono assicurare la remuneratività continua dell’investimento medio, una situazione quindi in cui ad una centralizzazione di capitale non segue affatto necessariamente una concentrazione. Vediamo come si distrugge il capitale in questo caso, oggi:

«[Nella distruzione di capitale del primo tipo] il processo di riproduzione si arresta, il processo lavorativo viene limitato o talvolta interamente arrestato, viene distrutto capitale reale. Il macchinario che non viene usato, non è capitale. Materia prima che giace inutilizzata non è capitale. Costruzioni che restano inutilizzate (altrettante quanto nuovo macchinario costruito) o restano incompiute, merci che marciscono nel magazzino, tutto ciò è distruzione di capitale [del primo tipo]. Tutto ciò si limita all’arresto del processo di riproduzione e al fatto che le condizioni di produzione, non vengono messe in funzione. Il loro valore d’uso e il loro valore di scambio vanno con ciò al diavolo» (Teorie sul plusvalore).

Decisamente, questa è la situazione che viviamo. Altro che distruzione produttiva!! A chi la date a bere ideologi borghesi che annunciate la ripresa per poi sistematicamente smentirvi da soli? Caro lettore, tu sai benissimo di che stiamo parlando.

Commenta bene il compagno Lenin in Marxismo e Revisionismo (1908): «Soltanto per un brevissimo periodo di tempo e solo persone di vista ben corta potevano pensare a rimaneggiare i principi della dottrina di Marx sotto l’influenza di alcuni anni di slancio e di prosperità industriale.».

Eppure, anche oggi, diversi cosiddetti marxisti presi dallo slancio  capitalistico breve, seguito al crollo dell’Impero Sovietico, propongono revisionismi di ogni sorta. Se fosse veramente così, cioè se veramente si tratta di una crisi di ristrutturazione, cui segue un boom di prosperità ed investimento (cioè se volessimo negare del tutto gli effetti della caduta tendenziale del saggio medio del profitto), ad ogni fallimento di azienda, ad ogni chiusura di fabbrica etc. dovrebbe seguire un’apertura di grandi impianti, e non solo la riassunzione degli operai licenziati ma l’assunzione di altri operai con tanto di fagocitosi dell’esercito industriali di riserva! Ma noi tutto ciò oggi non lo vediamo. Chiudono fabbriche italiane in Italia, chiudono fabbriche italiane in Romania o in Polonia. Chiudono le fabbriche polacche in Polonia. Chiudono fabbriche tedesche in Italia, e lo stesso avviene in Germania. Chiudono, o rimangono aperte con ritmi assai limitati. E non chiudono solo le fabbriche tecnologicamente più arretrate che non riescono così a correre dietro alle dinamiche di mercato, ma anche quelle più avanzate con annessi laboratori scientifici e di ricerca. E questo non avviene solo in Italia, o in Europa, ma progressivamente (sebbene ancora in misura diversa) in tutto il mondo, compresa la tanto acclamata Cina (come vedremo nel prossimo numero).

E’ altrettanto vero che ci sono ancora investimenti. I giganti del capitale di tanto in tanto pianificano ampliamenti, e nuove soluzioni. Eppure lo fanno solo quando sono messi nelle condizioni più favorevoli possibili, cioè solo quando hanno le giuste garanzie. Dunque lo fanno allorquando possono impiegare, sfruttare, e licenziare a piacimento, e possono godere di particolari favori in termini di imposte e approvvigionamento di materie prime.

Non fraintendere caro lettore. Non è il solito pessimismo ideologico che amano lanciare certi rivoluzionari, è maledettamente la verità, e basti verificare quanti fratelli di classe sono licenziati, in cassa integrazione, o disoccupati per rendersi conto.

Vivendo dunque questa prima forma di distruzione di capitale, possiamo ben evidenziare agli occhi del proletariato l’essenza reazionaria di teorie che negano la verità: il capitalismo sfrutta sino all’inverosimile le risorse umane e naturali per poi tenere tutto fermo, e implodere dinanzi ai propri limiti fisiologici trascinando con se l’umanità ed il mondo alla barbarie.

Si è infatti sin troppo ambigui dicendo che si tratta di una generica crisi di sovrapproduzione: il termine sovrapproduzione induce in sé in errore. Finché i bisogni più urgenti di una gran parte della società non sono soddisfatti, naturalmente non si può assolutamente parlare di una sovrapproduzione di prodotti nel senso che la massa dei prodotti sarebbe sovrabbondante rispetto ai bisogni di essi. Si deve al contrario dire che in questo senso, in base alla produzione capitalistica, si sottoproduce continuamente. Il limite della produzione è il profitto dei capitalisti, in nessun modo il bisogno dei produttori. Ma sovrapproduzione di prodotti e sovrapproduzione di merci sono due cose del tutto diverse. Inoltre non ha senso fare troppa distinzione fra sovrapproduzione di merci e sovrapproduzione di capitale.

«Le contraddizioni sviluppate nella circolazione delle merci, e più ampiamente nella circolazione del denaro -quindi le possibilità della crisi -si riproducono da sé nel capitale, poiché di fatto solo sulla base del capitale ha luogo una sviluppata circolazione di merci e di denaro» (Teorie sul plusvalore).

Dunque è lo stesso capitalismo, a provocare il fenomeno della distruzione del capitale improduttiva. Quando questo avviene, si è potuto ben notare storicamente che si sta di fatto consumando un grande ciclo di accumulazione. Alla fine del quale, i capitalisti provvedono, al fine di riavviare la grande accumulazione ed espropriare il capitalista concorrente dando sfogo a tutto il potenziale distruttivo del capitalismo. In pratica il capitalismo, tende verso l’esaurimento delle sue capacità riproduttive ed al fine di abortire un possibile passaggio alla società futura, si prepara ad uno sforzo finale di distruzione generalizzata di capitale, e questo ha portato due volte ad una guerra mondiale. Oggi non possiamo prevedere con certezza le modalità con cui si distruggerà capitale. Una ipotesi alternativa alla guerra generalizzata potrebbe essere ad esempio, quello della catastrofe ambientale. Aldilà delle previsioni che in fondo poco cambiano la sostanza delle cose e il nostro programma, il capitalismo trascina con se tutti nella merda al fine di difendere il sacro diritto al privilegio.

Facendo un analogia con la medicina. La distruzione di capitale è come un cancro. Come tutti i cancri può esser valutato benevolo o malevolo: può esser rispettivamente improduttiva o produttiva. Si sostiene che ogni ciclo di accumulazione muore per mano di un cancro di natura malevola, ovvero con la distruzione improduttiva di capitale.

Riconoscere, quindi, che il capitalismo vive una crisi profonda e che questa si manifesta con la distruzione di capitale improduttiva, significa comprendere che il capitalismo è alla frutta, e significa riconoscere la necessità di una rivoluzione proletaria, al fine di non assistere all’ennesimo aborto, ma alla nascita di una società nuova e libera.

«La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne ad esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale» (Grundisse)

 

La critica degli economisti a Marx, e la  sua presunta ignoranza in matematica

Nell’economia politica da sempre è vivo un dibattito fra coloro che sostengono che l’economia è in equilibrio o tende verso di esso, ed i marxisti che da sempre sostengono che il concetto stesso di equilibrio, come le eventuali deviazioni da esso, non hanno alcuna rilevanza per una teoria materialista e dialettica.

La posizione equilibrista aveva anche contagiato il partito bolscevico. Infatti, l’ex-bolscevico Bogdanov (1912-1921) e il controverso suo alunno, Bucharin (1925), hanno entrambi sostenuto la “teoria” per cui «l’equilibrio riflette il bilancio di forze dialetticamente in conflitto per cui la destabilizzazione di detto equilibrio e l’emergenza di uno nuovo costituirebbe proprio il passaggio qualitativo».

Oggi, in forma diversa, il dibattito interessa principalmente l’interpretazione della caduta tendenziale del saggio medio del profitto.

Tuttavia non ci interessa in questa sede ripercorrere tutti i passaggi di questi dibattiti.

Ci interessa, invece, accennare ai Manoscritti Matematici di Marx. Ripercorriamo i lavori di Marx in matematica perché intendiamo intanto dimostrare che Marx era molto interessato a colmare le proprie lacune in matematica, ed allo stesso tempo studiava la matematica con le armi della critica (al contrario di quanti oggi ne fanno uso bovino ed acritico). Inoltre questa deviazione dal tema ci permette di esercitare il lettore ad apprendere la dialettica anche attraverso questo lavoro di Marx. Questo approfondimento, siamo certi, gradirà a più di un lettore, e sarà utile per collegarci al cuore della polemica suaccennata.

Marx nei manoscritti economici critica correttamente il misticismo della procedura di derivazione di Leibniz.

Supponiamo che y1 = x13. Ponendo che dx = x1-x0  dy = y1 – y0 ,  si ha che:

(1)                y1 = x13 = (x0+dx)3 = x03+3x02dx+3x0(dx)2+(dx)3

dato  che y0 = x03.

(2)               y1 = y0+3x02dx+3x0(dx)2+(dx)3

cosicché

(3)                y1 – y0 = dy = 3x02dx+3x0(dx)2+(dx)3

e dividendo entrambi i membri per dx otteniamo

(4)               dy/dx = 3x02+3x0dx+(dx)2

A questo punto, seguendo Leibniz, cancelliamo dx nella parte destra dato che dx è infinitamente piccolo. Quindi, otteniamo

(5)                dy/dx =  3x02 o in generale 3x2

Marx commenta in poche parole. Primo, la derivata 3x02 appare già nella equazione (1) e cioè prima della derivazione, prima che dx sia posto uguale a zero. Quindi, per ottenere la derivata, «i termini che sono ottenuti in aggiunta alla prima derivata [3x0dx+(dx)2]… devono essere fatti sparire per ottenere il risultato corretto [3x02]» (p. 91).

«Ciò è necessario non solo per ottenere il risultato corretto ma qualsiasi risultato» (p.93). Marx chiama, non a torto, questo metodo il “metodo mistico”.

 Nell’affrontare queste difficoltà, Marx sviluppa il proprio metodo di derivazione. Sostanzialmente, il suo metodo è il seguente. Data una certa funzione, come y=f(x), prima di tutto Marx lascia che xo si incrementi fino a x1. Sia x che y aumentano di una quantità finita Δx and Δy (cosicché le regole dei numeri ordinari possono essere applicate in questo caso). Marx chiama il rapporto Δy/Δx = [f(x1)-f(x0)]/(x1-x0) la derivata provvisoria o preliminare. Poi, Marx fa decrescere x1 fino a  x0. Quindi, x1-x0=0 e conseguentemente y1-y0=0. In tal modo questo valore è ridotto alla sua quantità assolutamente minima. Questa è definita la derivata definitiva, dy/dx (cosicché la derivata appare solo dopo la differenziazione). «La quantità x1, anche se ottenuta originariamente dalla variazione di x, non sparisce, è solo ridotta al suo valore limite minimo  = x» (p.7). Vediamo quindi come Marx calcola la derivata di y = x3.

Se x0 aumenta fino a x1, y0 aumenta fino a y1. Dato che x1-x0 = Δx e y1-y0=Δy si ha:

(1)                    Δy/Δx = (y1-y0)/(x1-x0) = (x13-x03)/(x1-x0)

Dato che

(2)                   (x13-x03) = (x1-x0)(x12+x1x0+x02)

sostituiamo (2) in (1)

(3)                   Δy/Δx = [(x1-x0)(x12+x1x0+x02)]/(x1-x0)

e otteniamo la derivata provvisoria

(4)                   Δy/Δx = x12+x1x0+x02

Al fine di ottenere la derivata definitiva, x1 decresce fino a x0 cosicché Δx = dx = 0 e  Δy = dy = 0. L’equazione (4) diventa:

(5)                  dy/dx =  x02+ x02 +x02 = 3x02

La derivata definitiva è quindi la «derivata preliminare ridotta alla sua assoluta minima quantità» (ibid). I due metodi conducono allo stesso risultato. Ma ci sono differenze tra loro. Primo «i punti di partenza … sono poli opposti per quanto riguarda il metodo operativo» ( p.68).  In un caso è x0+dx = x1 (la “forma positiva”); nell’altro (Marx) è x0 che aumenta fino a x1, i.e.  x1-x0 = Δx (la “forma negativa”) (p. 88). «Una esprime la stessa cosa dell’altra: la prima negativamente come la differenza Δx, la seconda positivamente come l’incremento h» (p.128). Nella forma positiva «fin dall’inizio interpretiamo la differenza come il suo opposto, come somma» (p.102). Secondo, anche le procedure sono diverse: la frazione Δy/Δx è trasformata in dy/dx (i.e. Marx incomincia dalle quantità finite che susseguentemente egli pone uguali a zero) e la derivata è ottenuta dopo la derivazione, dopo che dx è posto uguale a zero. Nel metodo positivo (forma positiva) «la derivata non è per nulla ottenuta attraverso la differenziazione ma invece semplicemente attraverso l’espansione di f(x+h) oppure y1 in una espressione definita ottenuta attraverso una semplice moltiplicazione» (p.104).

Dal lato prettamente matematico, commenta giustamente il matematico mozambicano Gerdes (Marx Demystifies Calculus, 1985): il metodo esposto da Marx non può essere generale, in molti casi non è possibile dividere f(x1)-f(x0) con x1-x0.

Tuttavia, come sostiene del resto lo stesso Gerdes, la procedura di Marx ha un valore per la storia della matematica perché il suo metodo gli permette di capire che dy/dx non è un rapporto tra due zeri ma un simbolo che indica la procedura secondo cui prima x0 aumenta fino a x1 (e quindi y0 a y1) e poi x1 (e quindi y1) sono ridotti ai loro valori minimi, x0 e y0.

Il talentuosissimo matematico russo Kolmogorov, commenterà la scoperta di Marx che dy/dx è un simbolo operativo  anticipa «un’idea che fu avanzata di nuovo solo nel secolo ventesimo». L’enfasi posta da Marx su dy/dx come un simbolo operativo, «l’espressione di un processo» (p.8), «il simbolo di un processo reale» (p.9) è un vero successo, un’eccellente critica delle fondamenta “mistiche” del calcolo infinitesimale, della natura metafisica di entità infinitamente piccole che non sono, “né finite né nulle”. Per Marx, Δx diventa zero solo come simbolo, come un simbolo rappresentante una quantità minima ma reale. Il tasso dy/dx = 0/0 è solo una notazione simbolica, un simbolo operativo per la derivata definitiva. È un simbolo di un processo, di x0 che prima aumenta fino a x1 e poi decresce fino a x0. Andiamo a fondo. A dire il vero la prova finale della correttezza dell’intuizione marxiana sul calcolo differenziale la troviamo sul piano della prassi. Del resto nella prassi, le “mistificanti” espressioni del calcolo differenziale hanno un valore puramente simbolico, astratto. Primo, per Marx una quantità x può essere o x1 o  x0. La nozione di una quantità infinitamente piccola, di una infinita approssimazione allo zero, di qualcosa che, come entità realizzata, non è né un numero né zero, deve essere respinta come ‘metafisica’ come una ‘chimera’. Nell’ambito della realtà una quantità non può essere sia zero che differente da zero. Nel suo metodo, Marx prima incrementa x0 fino a x1 (cioè di Δx) e poi riduce x1 a x0, cosicché x1 non sparisce ma è ridotto al suo limite minimo, x0. Quindi, dx piuttosto che essere sia zero e non-zero è innanzitutto ottenuta da una derivata provvisoria, in cui compaiono numeri reali. Questa è una concezione di un processo reale. In tal modo Marx sfugge alla nozione “chimerica” della derivata. Le notazioni dx=0 e dy=0 sono i simboli di questo processo, e non numeri reali divisi per zero.

E’ proprio della mistica stalinista ritenere il contrario.  Del resto, si tratta di una falsa contraddizione.  Le contraddizioni sono concrete soltanto se costituiscono la lotta di esseri concreti, che dispiegano il corso concreto delle cose nonché il movimento stesso.  Miserabili impostori della dialettica sono coloro che elevano a “contraddizione” qualsiasi questione che risulta soltanto contraddittoria idealmente. Giacché la dialettica, al contrario di quanto riteneva Trotzky nel suo goffo tentativo di opporsi alla mistica staliniana, non è «la scienza delle forme del nostro pensiero, quando questo pensiero non si limita alle preoccupazioni della vita quotidiana ma tenta di apprendere dei processi più durevoli e più complesse» (ABC della dialettica, 1939). Per l’appunto, le leggi della dialettica sono date in primo luogo dalla faticosa estrapolazione e interpretazione della natura e della storia.

Secondo, per Marx nel metodo positivo xo+dx indica un’addizione, una variabile (dx) sommata ad una quantità costante (xo). Implicitamente, xo rimane lo stesso per tutta la durata cosicché la variazione interessa solo una limitata sezione della realtà. Il punto di partenza è una costante, a cui un cambiamento è aggiunto come un’appendice. L’analogia con l’equilibrio e il disequilibrio (deviazioni temporanee dall’equilibrio) nelle scienze sociali è chiara. dx è esterno a x, il primo è aggiunto al secondo.

A queste conclusioni grosso modo era giunto anche il ricercatore marxista, Guglielmo Carchedi. Tuttavia commette un errore dovuto, forse, alla sua scarsa preparazione matematica.  Carchedi  in Dialettica e contemporaneità nei manoscritti matematici di Marx (2008),  cerca a tutti i costi di forzare questa osservazione ad una concezione che definisce “del non-equilibrio”. Carchedi nella sua esposizione giustamente difende la determinatezza dei fenomeni economici, quindi il loro essere determinati storicamente, contro l’impostazione tipica dell’economia politica borghese, che è astorica. Inoltre, Carchedi è stato il primo a impiegare gli scritti matematici di Marx, in funzione polemica, contro il tipico modo accademico di criticare la concezione marxista dell’economia politica che va per la maggiore. Questa vulgata vorrebbe fare leva su una presunta mancanza di fondamento matematico nell’impostazione marxista, da cui deriverebbero delle grosse lacune descrittive della realtà economica stessa.

Certamente il terrore per la matematica, oltreché una certa dose di superstizione non hanno aiutato i marxisti.

Tuttavia occorre  metter in guardia il lettore. Carchedi cerca di raggirare le critiche incappando nella trappola stessa che i critici hanno teso. In che senso? Il ricercatore non fornisce una spiegazione matematica, rigorosa da opporre ai critici. Tanto è vero che  comincia affermando, gravemente, che «la disputa [fra teoria dell’equilibrio e del non equilibrio] non si è risolta, in una maniera, o nell’altra».

Prodromi di un modello matematico marxista della crisi del sistema capitalistico

Iniziamo con l’introdurre un concetto che prendiamo in prestito dalla teoria dei sistemi dinamici.

Occorre dire che, nel suo complesso, il sistema capitalistico è un sistema dinamico autonomo. Che significa? Il matematico Vladimir Arnol’d  lo definisce elegantemente: un sistema si dice autonomo «se, sottoposto ad arbitrarie traslazioni temporali, si mappa in se stesso.  (…) Il termine autonomo significa indipendente, e riflette l’indipendenza dell’evoluzione dello stato del sistema rispetto a quello di tutti gli altri. (…)

Vice versa, sistemi non autonomi possono esser definiti nel modo seguente. Assumiamo che si voglia studiare una parte I di un sistema materiale costituito da I+II. Allora, anche se la legge dell’evoluzione del sistema intero, I+II, non cambia nel tempo, l’influenza della parte II sulla parte I può implicare una legge di evoluzione di I che cambia nel tempo» (Equazioni differenziali ordinarie, p.117).

In che senso il capitalismo è un sistema autonomo? Sin da quando il capitalismo ha definitivamente superato i vecchi modi di produzione, quindi sin da quando il capitalismo non ha più carattere progressista (già da quando si preparava già alla prima guerra mondiale),  esso non è forzato da altri modi di produzione ad esso estranei, né da fattori che in esso stesso non siano definiti.

Aggiungiamo dei dettagli circa il concetto di sistema autonomo. Nulla toglie che è lecito suddividere un sistema autonomo in sottoparti, che fra loro non lo siano.

Inoltre, un sistema autonomo è definito da un insieme di condizioni iniziali. Dette condizioni iniziali per ciascun sottoinsieme del sistema capitalista sono state storicamente differenti, e conseguentemente differente è stata l’evoluzione locale. Tuttavia localmente le evoluzioni non sono state libere, bensì forzate dalle sottoparti del sistema capitalista più avanzate. Le condizioni iniziali ad ogni modo influenzano soltanto il transitorio del sistema verso il suo pieno e libero sviluppo: cioè verso il suo modo di esser incondizionato dalle resistenze dei residui sociali ed economici pre-capitalistici.

Vedremo che l’assunzione di sistema autonomo risulterà utile ai fini della determinazione del modello matematico.

Ora vogliamo misurare il sistema capitalista mediante una serie di parametri. Questi parametri li classifichiamo in parametri interni ed esterni alla sfera della produzione capitalistica. Si assume inoltre che esista una certa dipendenza fra i parametri. Tuttavia i parametri esterni non sono unicamente determinati dai parametri interni.

In termini geometrici, potremmo dire che gli stati possibili del sistema capitalista sono descrivibili come punti del prodotto delle varietà dei valori dei parametri interni ed esterni. La dipendenza suddetta, quindi, sta nel fatto che detti punti lambiscono sempre un sottospazio del prodotto stesso. Si assume che questo sottoinsieme costituisce una sottovarietà liscia di dimensione pari alla dimensione stessa dei parametri esterni. Ora consideriamo la mappatura di questa sottovarietà nella varietà stessa dei parametri esterni. La teoria matematica delle singolarità ci restituisce, a questo punto, l’informazione che ci occorre sui punti critici nonché i valori di questa varietà per sottovarietà qualsiasi.

Dobbiamo al magnifico lavoro dei matematici R. Thom (1972) e C. Zeeman (1974) l’impiego di queste preziose informazioni per lo studio delle “catastrofi”, ovvero dei salti del sistema da uno stato all’altro variando i parametri.

Sappiamo che più di un lettore si sia trovato in difficoltà dinanzi ad una tale mole di espressioni “aliene”. Tuttavia è importante almeno fornire delle indicazioni rigorose prima di presentare il modello, e di spiegare adeguatamente il funzionamento del modello stesso in modo chiaro anche per la gran parte dei lettori attenti.

Per accontentare da subito il lettore, prima ancora di proseguire nella trattazione del modello, diamo da subito dei chiarimenti circa i parametri stessi.

Dunque si è parlato di parametri interni ed esterni. Nella gran parte dei modelli matematici descritti nel modo suddetto, in genere, non si ha un grande numero di parametri. A dire il vero, nella gran parte dei casi, si hanno soltanto 2 parametri esterni, ed 1 parametro interno, ed in questo modo, come si vedrà, si ottiene proprio una singolarità del matematico americano, Whitney.

Ora come abbiamo scelto i parametri per la descrizione del sistema capitalista?  Come si decide il loro numero? Come si è detto, in precedenza, oggetto di grande dibattito dell’economia politica e di polemica verso l’impostazione marxista, è la legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto. Dunque ponendoci l’obbiettivo di mettere un punto a questa polemica, non possiamo che scegliere detti dati in maniera conseguente.

Ricordiamo la formula “algebrica” del saggio medio del profitto proposta da Marx:

(1)           SP =  PV / (CC+CV)

Dove l’annotazione impiegata è intuitiva: saggio del profitto (SP), plusvalore (PV), capitale costante (CC), capitale variabile (CV), saggio dello sfruttamento o del plusvalore (SS), e composizione organica (CO).

Dalla definizione del saggio del profitto, possiamo vedere che compaiono tre grandezze: PV, CC, e CV. Dividendo semplicemente per CV sopra e sotto la frazione, otteniamo l’espressione più elegante, in cui compare soltanto SS e CO.

(2)                SP  =  SS / (CO+1)

Bene, ora che abbiamo appurato che è possibile esprimere SP in funzione di due grandezze, per di più adimensionali, possiamo comodamente scegliere che siano proprio queste due grandezze i parametri esterni del nostro modello. Sono soltanto due, giacché sono soltanto due, essenzialmente, i parametri che descrivono SP.

Resta da indicare il parametro cosiddetto interno. Bene, questo parametro deve rappresentare proprio il potenziale del mondo della produzione capitalistica. Per definizione, detto potenziale è proprio il profitto (nonché le molteplici forme in cui il plusvalore viene ripartito fra i vari capitali: commerciale, creditizio, industriale, etc.). Poiché abbiamo assunto che il sistema è autonomo, dobbiamo considerare il profitto prodotto da tutti i settori e in tutti i paesi capitalisti, che è in fin dei conti proprio il plusvalore.

Per applicare la teoria delle singolarità, è necessario che il parametro interno rispetti una qualche legge di minimo (locale). Deve avere la stessa funzione, per intenderci, che rivestano le funzioni di Hamilton e di Lagrange nella meccanica classica) .

Eppure, il plusvalore non tende certo verso un minimo, bensì verso un massimo.

Il nostro modello raggira questo inconveniente semplicemente imponendo che non sia propriamente il plusvalore il parametro interno del nostro modello, bensì il reciproco. Ecco che il plusvalore tende ovviamente a massimizzarsi, mentre il nostro parametro interno a minimizzarsi.

Ricordiamo che il profitto generale prodotto dal sistema capitalistico, ovvero il plusvalore, non è dato immediatamente dalla composizione organica e dal saggio dello sfruttamento. Nei termini del nostro modello, il parametro interno (come si è già detto) non è determinato unicamente dai parametri esterni.

Insomma, in sintesi, abbiamo introdotto nel nostro modello i seguenti ingredienti: 1) il modello capitalistico costituisce un sistema autonomo; 2) il sistema è controllato da 2 parametri esterni, ovvero la composizione organica ed il saggio dello sfruttamento; 3) il sistema capitalistico tende verso il massimo profitto (plusvalore), dunque scegliendo come parametro interno il reciproco stesso, il modello è governato da una qualche legge di minimo (locale). Abbiamo, ora tutte le carte in regola per poter domandare alla teoria delle singolarità di che morte dobbiamo morire.

Dobbiamo al matematico francese, Mather(1968), una prima classificazione delle catastrofi. Riportiamo qui la sintetica classificazione riprodotta da Zeeman (che erroneamente attribuiva a Thom).

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Il nostro sistema presenta 2 parametri esterni (o di controllo) e 1 parametro interno (o di comportamento) –Zeeman era solito dare nomi molto suggestivi ai termini tecnici!

Vediamo che la catastrofe del nostro modello è proprio la cuspide (cusp).  Possiamo persino conoscerne l’espressione analitica: si può notare che detta funzione è funzione proprio di due coefficienti, che corrispondono ai due parametri esterni.

 Si tratta della più classica delle catastrofi: quella a cuspide. pieg

Una pieghetta. Bene l’insieme degli stati di equilibrio possibili del capitalismo costituisce niente meno che una pieghetta! Pieghette del tutto uguali sono state trovate nei più svariati campi. Le applicazioni sono state raccolte da diversi scienziati, lo stesso Thom (in biologia), Thompson (in meccanica), Gilmore (in fisica), Okninski (in chimica) etc.  Ormai non si contano i fenomeni che possono essere facilmente modellizzati applicando i magnifici risultati della teoria delle singolarità. Non è forse compito della matematica quello di trovare forme simili nei più svariati campi? Ebbene potremmo dire senza retorica che dopo la rivoluzione scientifica seguita dall’avvento degli strumenti dell’analisi infinitesimale di Newton e Leibniz, la teoria delle singolarità (o delle catastrofi, o delle biforcazioni) è senz’ombra di dubbio la più importante rivoluzione scientifica.

Cosa implica questo diabolico risultato? Se tutto quello che è stato detto sinora afferisce prettamente alla capacità matematica di costruire il modello a partire dal proprio bagaglio scientifico, ora, ugualmente, da questo dobbiamo necessariamente attingere per interpretare il risultato ottenuto.

Prima di passare all’interpretazione vera e propria, soffermiamoci su quanto già la teoria delle singolarità può dirci su questa catastrofe, in generale.

Dunque la “pieghetta”, costituisce una superficie bidimensionale in uno spazio tridimensionale. Questa superficie contiene tutti gli stati di equilibrio del nostro modello del capitalismo: tanto è vero che potremmo sinteticamente dire che la superficie di equilibrio del nostro modello capitalista è la pieghetta stessa. La superficie di equilibrio  è ottenuta tracciando i punti critici del parametro esterno al sistema in funzione dei parametri interni.

Proiettando la pieghetta sul piano definito dai parametri esterni, detto nel gergo “piano di controllo”,  si ottiene proprio la cuspide, da cui prende nome la catastrofe stessa.  Chiamiamo detta cuspide “curva della catastrofe”.

Ogni punto sul piano di controllo, è dato da una coppia di valori dei parametri esterni. Se tracciamo un punto su detto piano e con la penna tracciamo una traiettoria che attraversa la curva della catastrofe, che succede? Attraversando la curva in un suo qualsiasi punto, emergono un massimo ed un minimo locali, nonché due punti critici della funzione analitica del parametro interno. Il sistema disposto in un equilibrio stabile, dove il parametro interno ha un minimo locale, rimane in questo stato sino al momento di incipiente biforcazione. A quel punto quel punto critico diviene instabile, e il sistema fa un salto ad un equilibrio differente. Tuttavia, in generale, si ha il salto in base a quale è il minimo in cui si trova il parametro interno prima che avviene l’attraversamento.

Si ha così una metamorfosi vera e propria dei minimi della funzione.

Fatte queste dovute considerazioni di carattere generale, possiamo procedere con la interpretazione del risultato, come promesso.

Dunque cosa significa che avviene un salto? Il lettore può immaginare di appoggiare una biglia sulla nostra “pieghetta” e di lasciarla rotolare finché cade repentinamente a valle cascando sulla superficie inferiore.  Quando avviene questa caduta, si ha l’attraversamento della curva della catastrofe, e quindi  una grande caduta del parametro interno, a seguito di una piccolissima variazione del parametro esterno. Una grande caduta del parametro interno deve esser letto come il passaggio da uno stato capitalistico instabile ad uno stabile. Il prezzo di questo passaggio, o perestrojka (come la chiamano i russi nella letteratura matematica prima ancora che politica), è un repentino aumento della produttività che avviene per mezzo di una catastrofica trasformazione industriale.

Cosa potrà mai essere concretamente questo passaggio? Secondo noi è dato da una guerra mondiale, giacché il sistema capitalistico e i profitti stessi ritornano in uno stato stabile solo con la distruzione coatta del capitale sovraprodotto, come si argomentava pocanzi.

Ora resterebbe da capire per quale motivo è necessario il salto stesso. Innanzitutto come è stato ampiamente dimostrato dalla letteratura scientifica, la composizione organica “viaggia” ad una velocità più elevata di quella del saggio del dello sfruttamento. Da questa assunzione, del resto, si dispiega la tendenza alla caduta del saggio del profitto stessa. Ebbene, proprio da questa assunzione, possiamo dedurre che la nostra biglia non può evitare la catastrofe, non può scorrere morbidamente senza incontrare la piega, giacché è portata ad andare in avanti più rapidamente di quanto trasla lateralmente. Questa caratteristica capitalistica giustifica la catastrofe stessa nel modo di produzione capitalistico.

Qualche lettore starà storcendo il naso. Insomma, tutti sanno che di guerre mondiali ve ne sono state due, mentre nel nostro modello compare una sola piega!

Questo di per se non costituisce un problema. Infatti, è perfettamente possibile che estendendo l’analisi, come si dice nel gergo, globalizzandola, risultino più cuspidi, e quindi più pieghe.

 glob

Poniamo che esistano, per esempio due cuspidi, come si può vedere in FIG.1 e FIG.2. Dette cuspidi possono essere scorrelate (come in FIG.1) o correlate (come in FIG.2).

Vediamo prima il caso in cui queste siano scorrelate. Gli assi di simmetria delle cuspidi, possono essere: paralleli, perpendicolari o addirittura sovrapposti (una cuspide dentro l’altra o coincidente sull’altra).

Se nel nostro modello esistono soltanto due cuspidi, avremmo la certezza che dette cuspidi si disporranno mantenendo gli assi paralleli a se stessi.  Il motivo è storico. Se così non fosse dovremmo immaginare che, date le considerazioni sui parametri esterni,  perché vi siano i due salti necessari corrispondenti alle due guerre mondiali, nel passaggio dal primo al secondo, si dovrebbe avere un aumento del saggio dello sfruttamento maggiore rispetto a quello della composizione organica, in contraddizione con la struttura stessa che si intende modellizzare.  Dunque si tratta di una possibilità che non può essere quella del nostro sistema. Dunque, dobbiamo escludere il caso (b), perché ammette la possibilità di due conflitti mondiali, soltanto imponendo che in un certo tempo la velocità con cui si incrementa nel tempo il saggio dello sfruttamento sia maggiore di quella della composizione organica.

C’è dell’altro. E’ possibile che si presentino sovrapposte, cioè disposte una sull’altra in modo che la proiezione sul piano di controllo risulti tale da avere curve di catastrofi sovrapposte? Questo pur non negando la dinamica propria dei parametri esterni, esclude l’ipotesi dei due conflitti mondiali.

Per completezza, poniamo che le due pieghette si trovino correlate come in FIG.2 (dove si deve immaginare una forma labrosa). Questa possibilità è da escludersi completamente perché non impone che non siano possibili due conflitti mondiali oltreché presentare una dinamica dei parametri esterni incompatibile. Si deve notare che in questo caso le curve della catastrofe sono “condivise” da ambedue le pieghe.

Ne conviene che l’unica globalizzazione compatibile con il sistema capitalistico è la FIG.1 (a), in cui le pieghette sono scorrelate e disposte con le cuspidi con assi di simmetria paralleli.

Quale è la casistica nel caso in cui si hanno più pieghette di due? Risponde a questo importante quesito Gilmore (2002) in Topology of Chaos, Alice in stretch and squeeze land: «tre cuspidi non locali possono esserci in una mappa (…); possono essere tutte scorrelate (assumendo forme molto più complicate di quelle in FIG.1); oppure due possono presentarsi scorrelate ed una terza correlata; infine è possibile che siano tutte e tre correlate, purché ciascuna condivida un ramo di cuspide con l’adiacente; tuttavia quest’ultimo caso è possibile solo in sistemi di 4 dimensioni [non è il caso nostro! -anzi è proprio impossibile che esista in tre dimensioni] (…); dunque si tratta di un primo esempio di come singolarità non locali abbiano implicazioni significative sulla dimensionalità del sistema dinamico in esame, ed in particolare sul numero necessario di direzioni stabili.

Si possono avere persino 4 cuspidi non locali: possono essere tutte e 4 scorrelate; oppure possono esser correlate una o  due paia; infine possono esser tutte e quattro correlate [purché gli assi di simmetria delle cuspidi siano ortogonali fra loro, come nella macchina della catastrofe di Zeeman]» (p.413).

Che possiamo dire in merito alle considerazioni suddette?

Dunque procediamo per esclusione per capire in quale di questi casi ci troviamo. Per ora limitiamoci al caso in cui vi siano 3 cuspidi.

Potrebbero essere 3 pieghette scorrelate, di cui due per quanto detto in precedenza devono nessariamente disporsi come in FIG.1a.

Oppure potrebbero essere 2 pieghette scorrelate ed una correlata (in questo caso si dovrebbe dedurre che è possibile che esistano solo due salti).

Il ragionamento può essere replicato per N cuspidi. Per il nostro modello ci limitiamo a 3 cuspidi, giacché nessuno dotato di senno ha voglia né interesse a pensare oggi ad una quarta guerra mondiale.

Al momento quindi abbiamo due modi alternativi di rappresentare un modello del sistema capitalistico introducendo a posteriori una verità assoluta: sono esistite due guerre mondiali. Mentre la prima di per sé non esclude che sia possibile una terza guerra mondiale (ponendo che la terza cuspide si dispone parallelamente alle altre due), la seconda la esclude del tutto. La teoria delle singolarità, ad oggi, non può andare oltre, come lo stesso Gilmore, in una sorta di manifesto programmatico a conclusione del suo libro (p.436), ammette che non è possibile ad oggi affermare a priori alcunché circa le modalità con cui le pieghe si dispongono. Il matematico statunitense, Smale, è riuscito a sciogliere questo problema soltanto nel caso in cui i sistemi siano definiti mediante un solo parametro esterno, anziché due come nel caso in esame.

Tuttavia, la nostra teoria ci dice che  il sistema tende da equilibri stabili sempre meno stabili, sino all’instabilità. Questo certamente deve portarci a pensare che stiamo dinanzi ad una globalizzazione che non può ammettere che si abbiano due pieghe scorrelate ed una terza correlata.

Arriviamo alle conclusioni. Abbiamo costruito un modello semplice, imponendo delle ipotesi semplici sui parametri. La teoria delle catastrofi ci dice che la catastrofe è sicuramente a cuspide: per come il sistema è strutturato, i parametri che interessano il saggio medio del profitto ci informano che è insita nel sistema la distruzione stessa di plusvalore.

Globalizzando ed introducendo il dato delle due guerre mondiali, abbiamo visto che il modello esteso ad oggi non è univoco: può esser descritto sia con due cuspidi in parallelo e una terza cuspide perpendicolare, che con tre cuspidi in parallelo (escludiamo il caso in cui la terza cuspide possa presentarsi sottostante alle prime due). Il primo caso ci dice che l’instabilità è la terza guerra mondiale, il secondo ci dice che, benché esistano tre pieghe, è anche possibile che vi siano soltanto due salti. La teoria delle singolarità di per sé non può escludere a priori quest’ultima possibilità, e non può chiudere il problema.

Tuttavia sappiamo che da anni si ha una crescente tendenza alla distruzione del primo tipo, e una crescente tendenza all’instabilità. Tutto ciò farebbe pensare che sia più possibile che vi siano le tre cuspidi in parallelo, e quindi un’altra guerra mondiale.

Abbiamo così esposto i “prodromi” per un venturo modello matematico del sistema capitalista. Quali potrebbero essere i passi successivi in questo nuovo ambito di studio della teoria marxista? Certamente sarebbe utile conoscere la traiettoria reale sul piano di controllo, e così ottenere il percorso concreto considerando anche i salti in corrispondenza dei conflitti mondiali. Questo lavoro potrebbe essere utile per una futura validazione del modello, nel caso in cui si riesca a definirne eventualmente la forma e la collocazione della terza piega.

Preziosissimo in questo senso potrebbe essere lo studio, per quanto difficile dal lato della raccolta dei dati, dell’andamento del plusvalore: da questo (il parametro esterno) si può dedurre la forma della terza piega, e quindi intuire come è disposta la cuspide corrispondente a ritroso, tenendo conto che il plusvalore non è univocamente dato dai parametri esterni. Per fare questo lavoro, nella pratica, occorrerebbe conoscere semestre per semestre, a partire dal secondo dopoguerra il valore del plusvalore complessivamente prodotto e, in corrispondenza, i valori dei parametri interni, e quindi tracciare un punto. Poiché, sappiamo che localmente deve venire fuori una cuspide, si cerca una funzione analitica che si adatta proprio a quei punti, e si verifica la forma corrispondente delle superfici di equilibrio.

Infine, riprendiamo lo scritto di Carchedi. Egli affermava in maniera confusa: «Per questi ultimi [i marxisti], non solo l’equilibrio ma anche le deviazioni da esso (il disequilibrio) sono solo potenti nozioni ideologiche che non hanno alcuna rilevanza per una teoria economica del mondo reale. Infatti, l’economia capitalista tende non verso l’equilibrio ma verso le crisi attraverso una successione di cicli economici. I due approcci sono radicalmente differenti. I termini ‘economia del (dis)equilibrio’ e ‘economia del non-equilibrio’ sottolineano questa differenza. La disputa non è ancora stata risolta, in una maniera o nell’altra».

La confusione di Carchedi sta tutta nel fatto che in lui vi è una identità fra “equilibrio” e “stabilità”. Noi nella nostra trattazione abbiamo trattato il sistema capitalista come una successione di stati di equilibrio, ma la nostra trattazione, al contrario di quella degli economisti contro cui polemizza, non è affatto statica, contiene le contraddizioni, dal cui dispiegamento si ha la conversione della quantità in qualità, nonché la catastrofica trasposizione del sistema da uno stato instabile ad uno stabile. Non occorre “inventarsi” una teoria del “non equilibrio” per giustificare la dinamica capitalistica, e quindi per storicizzare i modelli matematici che tendono a descriverne la natura.

La lotta fra teorie dello “equilibrio” e del “non-equilibrio” è una lotta inconcludente, perché tenta di rappresentare le trasformazioni dinamiche , mediante strumenti matematici che non possono modellizzarle. Da un lato abbiamo coloro che hanno accusato il marxismo di esser insufficiente, nel tentativo miserrimo di salvare i propri modelli. Dall’altro chi nega che possano esistere modelli matematici, e quindi nega che il capitalismo stesso abbia una forma essenziale,  nel tentativo (corretto) di discreditare l’opera indecente dei primi.

Dal canto nostro proponiamo questo modello per mettere fine a questa inutile discussione, ed allo stesso tempo, introduciamo nella letteratura marxista i rivoluzionari sviluppi della matematica, che hanno reso possibile la modellizzazione rigorosa delle catastrofi in tantissimi campi della scienza negli ultimi 60 anni. Ogni passo in avanti in questo campo della scienza sembra voler formalizzare le geniali intuizioni dialettiche di Engels e di Marx, che per primi hanno tentato di esporre con gli strumenti della dialettica, l’oggettiva trasformazione della realtà storica e materiale.

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